Il dolore cronico non è solo una percezione soggettiva, ma una condizione che incide profondamente sulla vita della persona, limitandone autonomia, capacità lavorativa, relazioni sociali. Eppure, in ambito medico-legale, la prova del dolore rimane fragile, spesso appesa a scale soggettive e a descrizioni frammentarie, che rischiano di svuotarne il riconoscimento come malattia meritevole di tutela e risarcimento.
Perché è urgente parlarne
Oggi, la letteratura medica riconosce il dolore cronico come malattia autonoma, distinta dalla lesione originaria, sostenuta da meccanismi neurofisiopatologici complessi che possono persistere anche dopo la risoluzione della causa iniziale. Tuttavia, la valutazione del danno rimane spesso vincolata a tabelle rigide o a logiche risarcitorie che faticano a dare dignità al dolore quando non accompagnato da marker clinico-strumentali evidenti.
Questa discrepanza genera una frattura tra la realtà clinica del dolore cronico e la sua effettiva rilevanza medico-legale.
Il nodo della prova
Il dolore, per definizione, è un’esperienza soggettiva e multidimensionale: sensoriale, emotiva, cognitiva, comportamentale. Ma come tradurlo in prova, evitando il rischio di invisibilità o, al contrario, di enfatizzazione impropria?
Molti casi si bloccano su:
- assenza di segni obiettivi chiari;
- difficoltà a stabilire un nesso causale con l’evento lesivo;
- confusione tra dolore come sintomo e dolore come malattia;
- timore di simulazione.
Eppure, non possiamo ignorare il dolore cronico solo perché non facilmente misurabile: occorre superare una cultura del sospetto per avviare una cultura della valutazione seria, prudente ma non negazionista.
Verso un’alleanza clinica e medico-legale
Per affrontare il tema con responsabilità, servono:
- diagnosi coerenti e documentate, anche con supporti strumentali laddove possibile (termografia, scintigrafia, valutazioni funzionali);
- impiego sistematico di scale multidimensionali, integrando la percezione soggettiva con l’osservazione clinica;
- registrazione dell’impatto del dolore sulla vita quotidiana, anche tramite diari e referti di trattamenti analgesici;
- formazione congiunta tra clinici e medici legali, per uniformare il linguaggio e le modalità di attestazione del dolore cronico;
- consapevolezza del dolore come elemento di personalizzazione del danno, non un automatismo, ma una valutazione che valorizzi la specificità del caso.
Una sfida per la comunità medico-legale e clinica
Il riconoscimento del dolore cronico come malattia e come prova in ambito medico-legale non è una concessione al soggettivismo, ma un atto di responsabilità verso i pazienti che vivono una condizione invalidante, spesso invisibile, e che meritano una valutazione equa e aderente alla realtà.
Clinici e medici legali, insieme, possono contribuire a:
- ridurre il contenzioso basato su valutazioni approssimative;
- garantire tutele più adeguate;
- restituire dignità a chi convive con una sofferenza che non è “solo un sintomo”.
Riconoscere e documentare il dolore cronico non significa abdicare al rigore valutativo, ma coniugare scienza e umanità, perché dietro ogni scala VAS e ogni tabella, c’è la vita concreta di una persona.
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